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Aminta Flebus, nata nel 1911 a Trieste da genitori friulani (di Torreano il padre, uno dei primi alpini caduti nella Grande guerra che la lasciò orfana a 4 anni, di Buttrio la madre) è stata la destinataria e l'ispiratrice della casa-emporio di via Savorgnana, impreziosita – dopo il suo matrimonio con il commerciante di stoffe – dalle opere di Mirko e Afro Basaldella, che lei conosceva fin da bambini, dal pittore Corrado Cagli e dall'architetto Ermes Midena.
Aminta era molto conosciuta in borgo san Lazzaro e in gran parte della città non solo per il suo lavoro di sarta (che l'aveva portata ad apprendere il mestiere nell'atelier della sarta Zilotti proprio al secondo piano di residenza Cavazzini ben prima di conoscere Dante), ma anche perchè era stata attrice con la Filodrammatica udinese negli anni Trenta.
Benchè avesse contribuito, assieme al marito, a trasformare in un sito prezioso il negozio di stoffe di via Savorgnana, in quella casa Aminta Flebus ci abitò pochissimo; preferì trasferirsi, rimanendo sempre nel cuore cittadino, e lasciandola alla famiglia del marito, fatta arrivare dall'Emilia Romagna. Non ha avuto tuttavia esitazione a donare l'immobile-capolavoro al Comune dopo il decesso del marito avvenuto nel 1987. «Con questa casa – amava ripetere – Dante intendeva onorare il talento degli artisti e degli uomini di ingegno friulani; è stato lui a scegliere, su indicazione di Midena, gli arredi e le decorazioni più preziose. È giusto che diventi un museo e quando vedrò entrare per quel portone la prima carriola di malta sarò veramente contenta».
Considerazioni che la signora Aminta avrebbe voluto ripetere all'architetto Gae Aulenti, la nota progettista milanese nata a Palazzolo dello Stella e incaricata del restauro dell'immobile, ma quell'incontro non ci fu. E la carriola di malta è sì entrata nella residenza di via Savorgnana, ma per l'inaugurazione del museo atteso da anni, bisognerà  aspettare il 2010 quando  troverà posto lì la collezione Astaldi.

 

La sarta che sposò il mecenate Dante Cavazzini
di MARIO BLASONI

«Quando la prima carriola di malta entrerà in via Savorgnana 5-7, le racconterò tutta la storia di Casa Cavazzini». Così Aminta Flebus, vedova del commerciante-benefattore Dante Cavazzini, aveva promesso - alcuni anni fa - all'autore di 'Vite di udinesi". E ora che i lavori per trasformare le due palazzine nella nuova Galleria d'arte moderna sono cominciati, la novantaquattrenne signora di via Savorgnana ha aderito all'invito d'una chiacchierata nel suo salotto panoramico al numero 24 della stessa via, dove abita dai primi anni '60.
Lo ha fatto anche per ricordare ancora una volta il famoso negozio di tessuti aperto nel 1922 con l'insegna «Al ribasso» e il suo munifico titolare, il commendator Dante - mancato nel 1987, a 97 anni - che ha dedicato la vita, sì, agli affari, nei quali era imbattibile, ma anche alla beneficenza (l'Istituto Bearzi di Udine e il Piccolo Cottolengo di Santa Maria La Longa portano l'impronta della sua generosità). A Udine aveva cominciato nel 1921 con uno spaccio in via Manin e negli anni '30 aveva aperto un altro negozio in via Mercatovecchio. La storia della residenza-emporio di via Savorgnana, impreziosita da interventi di artisti come Afro e Mirko Basaldella, Corrado Cagli e di un architetto creativo come Ermes Midena, si specchia con quella della sartina udinese Aminta, apprezzata attrice filodrammatica, di cui s'innamora il maturo commerciante di stoffe (21 anni di differenza) arrivato dall'Emilia e dopo dieci anni («mamma non voleva!») finalmente riesce a sposarla. Friulanissima, Aminta Flebus è nata il 4 febbraio 1911 a Trieste («era ancora sotto l'Austria») perché i suoi genitori lavoravano entrambi alla Modiano: papà Felice, originario di Torreano di Cividale, come contabile e mamma Genoveffa, di Buttrio, come capo del personale femminile.
Ad appena 4 anni Aminta perde il padre, che nel 1915 era rientrato in Italia arruolandosi nell'8°alpini: è uno dei primi caduti della Grande guerra. Figlia unica, la piccola segue la madre dapprima a Torreano, dove Genoveffa è stata assunta da uno zio prete come perpetua, e poi a Udine, dove trova un altro lavoro e un alloggio in via Superiore. Dopo le elementari, Aminta frequenta l'istituto femminile Blanchini di via Grazzano e va a imparare il mestiere dalla sarta Zilotti, sopra il negozio di stoffe di via Savorgnana.
«Quando sono entrata la prima volta da Cavazzini avevo 15 anni. Il titolare l'ho conosciuto molto tempo dopo. Un giorno, avendo vinto un terno al lotto, andai a fare acquisti (la mamma diceva: i soldi bisogna investirli!). Dante mi si avvicina, incuriosito: 'Cosa se ne fa, signorina, di tante stoffe?" Sono sarta.... 'Mi dà il suo indirizzo?", non do indirizzi a nessuno!, gli risposi». Ma Dante riuscirà a 'scoprirla". Un giorno la vede affacciata alla finestra di casa mentre passa in via Superiore seguendo un funerale... E da allora non l'ha più lasciata, anche se la loro relazione per anni è stata soprattutto epistolare. Perché la mamma non se ne accorgesse, lui le scriveva al recapito d'una amica.
Poco più che ventenne, Aminta (come mai porta il nome - maschile - di un personaggio del Tasso? «Piaceva a mio padre, che amava i classici e... non andava tanto per il sottile!») si era fatta conoscere nel borgo San Lazzaro sia col suo lavoro di sarta, ormai in proprio, sia col teatro. Recitava, infatti, nella Filodrammatica di Carlo Carrara e Carletto Serafini. Del 1932 è la rappresentazione, al Puccini, de 'Il dramma, la commedia, la farsa" di Luigi Antonelli (premiata due anni dopo al concorso di Sanremo). «Nel classico triangolo marito-moglie-amante, io ero la moglie - racconta oggi Aminta -. E avevo un certo temperamento! In una scena-madre, l'amante mi circuiva, mentre ero seduta sul divano, sussurrandomi con passionalità». Spasimo, tentazione, follia. «A quel punto ho pensato, con nonchalance, di tirarmi un po' su la gonna: che applausi, è venuto giù il teatro!».
A quegli anni risalgono i famosi affreschi di Afro. Aminta e sua mamma erano amiche dei Basaldella: la madre dei fratelli artisti, Virginia, aveva un negozio di frutta nel borgo. «Fui io che mandai da Cavazzini quel ragazzo di belle speranze, Afro, pressoché mio coetaneo (da bambini giocavamo sul sagrato del Redentore). Ai suoi affreschi della sala da pranzo e della biblioteca si sono poi aggiunti il grande dipinto di Cagli, gli arredi di Midena, arricchimenti di Mirko. Il museo parte già con una cornice prestigiosa». Aminta e Dante si sono sposati nel 1940. («Aveva un carattere forte, ma era gentile e premuroso; un buon matrimonio, nonostante la differenza d'età: sa, forse avevo anche bisogno di un padre...»). Ma la signora non ha mai abitato in quella grande casa che ha contribuito a rendere così preziosa. Cavazzini aveva fatto venire dall'Emilia la madre e le due sorelle. «Non riuscendo a inserirmi nell''azienda familiare" di mio marito, ho preferito prendere un appartamento in via Girardini. E Dante trascorreva le giornate un po' in una e un po' nell'altra abitazione». Ha avuto un rapporto singolare, quindi, con quella casa che, dopo la scomparsa della suocera, delle cognate e del marito, si è trovata a ereditare.
Dante Cavazzini è morto nel 1987, raccomandandole: «Chiudi il negozio». Ma lei ha continuato ancora per tre anni, per poter trovare nel frattempo ai dipendenti, una quindicina, una nuova sistemazione. Nel '92 ha fatto la donazione al Comune per onorare la memoria del marito con un'opera duratura («Dante, veramente, avrebbe preferito una via, che il primo tratto di via Savorgnana si chiamasse Cavazzini, ma non è stato possibile»).
E oggi? Oggi la signora Aminta fa vita molto ritirata. Se la cava ancora bene da sola, anche se di notte, per maggiore tranquillità, le fa compagnia una donna (friulana). Di giorno vanno a trovarla le amiche, in primis la signora Liselotte, vedova del compianto direttore dei civici musei Aldo Rizzi «con il quale Dante - lo ricorda lei stessa - aveva già preso contatti per dare un futuro a Casa Cavazzini». Non ha perso i contatti con i vecchi ex dipendenti, che vengono pure a salutarla (è il caso di Gianni Tosoratti, per 42 anni da Cavazzini prima come fattorino e poi commesso).
Dal marito ha «ereditato» anche l'autista, Luigi Baldo, che l'accompagna per qualche commissione o, più spesso, nelle visite al cimitero. Nella parte monumentale di San Vito c'è la cappella di famiglia, dove Dante riposa con la madre e le sorelle. «Gaveria el posto anche mi...» assicura la signora. Ma non sembra avere... molta fretta. Prima vorrebbe assistere all'apertura della Galleria d'arte Cavazzini, finalmente realizzata dal famoso architetto Gae Aulenti. Ma quando sarà? «Anni fa dicevano nel 2005, adesso dicono nel 2007...» Campa cavallo... Sono passati 13 anni, l'attesa continua e la vedova del commerciante-benefattore continua a guardare l'ex negozio dall'alto, dal settimo piano della sua abitazione. Ripensando ancora al suo singolare rapporto con Casa Cavazzini, amata e avversata. «Ci sono entrata la prima volta nel 1926, a 15 anni, andando a scuola di sartoria e a fare spese; ci sono tornata (ma non per restarci) nel 1940, a 29 anni, quando mi sono sposata. Poi non ci ho messo più piede. Ecco, 15, 29... Mi manca la terza data, quella dell'inaugurazione, per giocarci un altro terno al lotto!».

 

Chi era Dante Cavazzini
Dante Cavazzini nasce a Gualtieri (Reggio Emilia) il 27 maggio 1890 “da numerosa e povera famiglia” come cita uno dei suoi biografi, Serafino Prati. A 11 anni, finite le scuole, comincia a lavorare come garzone muratore, poi come mondariso in Piemonte, infine a Milano, chiamato da un compaesano macellaio, come garzone nel suo negozio di corso Genova. Le stoffe dovevano piacergli, se quasi subito, appena quindicenne, trova lavoro come fattorino prima, e come magazziniere in alcune ditte di tessuti nel capoluogo lombardo. A vent’anni parte militare e, nel 1911, sbarca a Bengasi per partecipare come fante alla guerra libica. Rimpatriato nel 1913, scopre per la prima volta il Friuli il 25 maggio 1915, un giorno dopo la dichiarazione di guerra. Resta in trincea fra l’Isonzo, Gorizia e Tolmino, poi parte per la Francia per combattere a fianco degli alleati. Rientrato in Italia nel 1919, parte come commesso viaggiatore in Austria con un carico di stoffa da vendere a Vienna. Si stabilì a Udine, vendendo subito “un assai consistente volume di merce a prezzo ridotto” e aprì negozio in via Savorgnana 5 il 4 maggio 1922. Nel 1933 aprì una prestigiosa succursale in via Mercatovecchio, che nel ’43 fu requisita per uso militare. Nel 1940 sposa a Gualtieri Aminta Flebus. Già nel 1933 aveva cominciato a interessarsi di beneficienza, conoscendo don Guglielmo Biasutti, che lo avvicnò ad alcune iniziative a favore dei poveri. Fu Biasutti a suggerirgli, quando diede inizio nel 1937 al rifugio “Giacomino Bearzi”, di prendere parte alla crescita dell’istituto, affidato nel ’39 ai salesiani. Insieme, nel 1944, idearono un Piccolo Cottolengo friulano, che aprì nel 1946 a Santa Maria La Longa. Nel 1957, alla morta dell’amata madre Clotilde Avanzi, le intitolò il laboratorio per meccanici specializzati, cui seguirono altri edifici scolastici sempre nell’area del Bearzi, come la scuola di disegno, intitolati anche al padre Giovanni e al fratello Costantino, morto di tisi. Nel 1961, il Comune di Udine, lo nomina presidente della Casa d’invalidità e vecchiaia, mentre Santa Maria La Longa e Gualtieri lo nominano cittadino onorario. Riceve anche il titolo di Commendatore della Repubblica Italiana. In una conversazione con monsignor Biasutti, così spiega questa sua incessante volontà di donare agli altri: “Perché io ricordo, mi capisce? Ricordo quando ho sofferto e faticato lavorando da ragazzo e poi in guerra. Per questo, oggi che posso, do volentieri una mano a chi soffre e fatica. Non ho dimenticato. Appena mi sono sentito soldi nelle mani, mi è venuto spontaneo fare un po’ di bene”.